ALFABETO DI CODIFICA


Utrecht 2020

Specchiarsi dentro i dispositivi portatili e accomodare i nostri volti, in modo da ottenere un'immagine che incontri i nostri modelli di bellezza, non ci basta più. Neanche quei filtri che nascondevano le “imperfezioni” sono sufficienti a calmare la nostra voglia di identificazione. Adesso ci sono programmi che, grazie a un paio di comandi, stravolgono totalmente i nostri ritratti, trasformandoli in qualcosa di completamente diverso e più che mai fittizio. Anche se la trasformazione è evidente, io credo che molte persone arriveranno ad identificarsi con questi avatar digitali, perché a questa assurda metamorfosi dell'idea del “Io” ci siamo arrivati per gradi.

Il vecchio selfie (perché è già vecchio e non per colpa di Bayard) deformava i nostri volti a causa degli obbiettivi grandangolari installati negli smartphone, deformazione che sembra non aver per nulla infastidito quegli utenti ignari del buon utilizzo delle ottiche fotografiche. Poi è stata la volta dei ritocchi in post produzione, per rimuovere le rughe e nascondere i piccoli difetti. Ci è voluto poco per imparare a leggere quelle immagini deturpate, perché lo sappiamo bene che è il nostro cervello che si adatta alla visione e che la percezione è solo il risultato di una codifica.

Ognuno di noi, fin dalla nascita, è impegnato a riconoscere facce. Quando raggiungiamo la maturità, sappiamo discernere con sofisticata precisione, e nel tempo di una frazione di secondo, le differenze espressive di un volto. Leggere queste espressioni è probabilmente l'abilità più perfezionata dell'uomo dotato di vista, e questa abilità la applichiamo alla nostra personale ricerca e idealizzazione del ritratto che ci identifica e con il quale ingaggiamo le nostre relazioni virtuali.

La critica feroce che facciamo nei confronti di quelle foto che non incontrano le nostre aspettative è un tratto comportamentale davvero interessante. Non mi interessa analizzare l'aspetto psicologico di questo comportamento al quale, chi più chi meno, ci abbandoniamo tutti, ma è affascinante capire come siamo arrivati a questo tipo di critica, che esisteva anche all'epoca della gelatina d'argento, ma che negli ultimi anni ha assunto livelli preoccupanti, tanto che se ti azzardi a taggare una persona su un social senza il suo consenso, rischi davvero grosso.

L'overload informatico è soprattutto un sovraccarico di informazioni fotografiche. I contenuti di immagini e video stanno moltiplicandosi in rete a vista d'occhio, mentre si legge sempre meno. Le nostre esperienze visive, sempre più intense e persistenti, ci stanno rendendo super sensibili alla vista, trascurando gli altri quattro sensi. Sappiamo assolutamente tutto di come le cose devono apparire e crediamo che le cose siano davvero come appaiono. Ma come detto prima, la percezione è solo il risultato di una codifica, e l'alfabeto di questa codifica ci è quasi del tutto ignoto.

Ecco allora che per gradi, proprio come è successo con i primi selfie da smartphone, si passerà a identificarci in queste nuove immagini che oggi ci sembrano solo un gioco frivolo, ma che, piano piano, stanno già aggiornando il misterioso alfabeto di codifica.



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